Milo Infante

blog personale

Affari di famiglia

Per separarvi con intelligenza Guardatevi dagli avvocati “Rambo”

Ammetto di avere molta paura a fare il mio lavoro.

La violenza in famiglia, questa lunga scia di sangue, che sembra non avere più fine, prodotta dalle stragi familiari, mi scombussola, mi trova impreparato al peggio, mi fa sentire inutile o complice.

Troppe separazioni e divorzi sono la miccia di tragedie assurde. Ne sono perfettamente consapevole.

Ho il terrore che anche tra i miei assistiti possa esserci un potenziale assassino o una potenziale vittima. Perché dovrei pensare che gli assassini e i morti ammazzati siano sempre clienti degli altri?

So di stare in un campo minato perché non riesco a tenere sotto controllo tante situazioni. Sto cercando di mediare in tutti i processi, di abbassare i toni, di scrivere memorie difensive in modo soft. Ho paura e mi sento solo.

Troppe donne, tutti i maledetti giorni, si rivolgono a me con il volto tumefatto e con il cuore a pezzi. La gran parte accetta questa situazione per tutta la vita. Troppi padri fanno la fame e non hanno vie di uscita perché messi alla gogna e in ginocchio dal processo e da un destino quasi sempre segnato.

Sento nel mio studio troppo odio, troppa violenza, troppa stupidità.

Lavoro con fatica, non riesco a stare più tranquillo, forse sto perdendo la mia libertà di avvocato, quella di scegliere una strategia secondo coscienza e secondo il buon diritto. La mattina leggo i giornali  e apprendo dell’ennesima strage:

< Lui ammazza lei e poi si suicida. Stavano per separarsi>.

Faccio parte di un sistema impotente e di una società rassegnata e assuefatta a tutto. Ormai la mattanza non fa più notizia oppure la fa soltanto quando i morti sono più di due. E così non fanno notizia i suicidi dei padri della mensa dei poveri. Ma che succede?

Chi proteggerà la mia assistita dopo la denuncia verso il suo carnefice? Quali strumenti ho per tutelarla e quali ne garantisce lo Stato? E se dall’altra parte c’è un assassino? Mi sentirò in colpa se succederà qualcosa di irreparabile? Forse sarà meglio non denunciare? Che situazione assurda. Siamo arrivati al paradosso che una denuncia spesso si trasforma in una condanna a morte. E noi saremmo uno stato di diritto?

Ormai sono in un vicolo cieco e insieme a  me tanti avvocati rinchiusi nei loro studi a studiare vanamente codici e sentenze.

Questo sistema mi ha indebolito sotto ogni profilo, ha vanificato ogni speranza e ogni certezza che nutrivo tanto tempo fa.

Studiare non serve più. Il diritto ormai è solo pura e vuota tecnica. La società e lo Stato parlano un’altra lingua. Il delitto d’onore (o meglio del disonore) è ancora radicato nella testa di molti uomini. Davanti alla sottocultura non c’è legge che tenga.

E intanto la gente mi chiede aiuto mentre io chiedo aiuto allo Stato. Uno Stato assente e complice della mattanza e della denegata giustizia.

Mi sento come spogliato di ogni funzione sociale e professionale.

Da anni sogno un sistema diverso, una cultura sociale diversa, un modo diverso di fare l’avvocato. Un avvocato più utile alla ricerca della soluzione che della vittoria ad ogni costo.

Mi spaventa la incosciente sicurezza del collega avversario che si trasforma in Rambo. Lui scrive di tutto, fomenta odio, articola accuse spietate, è un fiume di insulti e provocazioni. Costui non capisce cosa sta facendo e che  scherza con il fuoco sulla pelle di una intera famiglia. Vuole a tutti i costi la testa del mio cliente che porterà, come un  trofeo di guerra, al suo assistito assatanato.

Io cerco di non scendere al suo livello, mentre lui, il collega , rincara la dose.

Che faccio? Picchio anche io? Urlo anche io?

Se cerco di abbassare i toni  rischio di essere considerato un pavido o un venduto, se cado nelle provocazioni avverse rischio di accendere la miccia di un conflitto insanabile e incontrollabile. Ecco il quotidiano dilemma che mi tormenta. Allora non mi resta che affidarmi all’istinto del giocatore d’azzardo: rischiare e bleffare.

Il processo, ormai, non è più tecnica, è soltanto una gara a chi picchia di più.

Questa realtà mi sta distruggendo ogni passione. Leggo i testi sacri del diritto, studio, mi aggiorno e aggiorno gli altri. Ma a che serve?

Il diritto dice belle cose, sforna principi di giustizia. Ma il diritto è solo pura teoria. La legge parla una lingua, la società e lo Stato ne parlano un’altra.

Ecco perché ho paura.  Ho paura che regole del gioco siano taroccate e che tutto sia inutile, anche la passione per il proprio ruolo. Troppe sono le variabili di un processo. Sono troppe per stare tranquillo e avere la coscienza a posto di aver contribuito a tutelare diritti di persone che credono di essere tutelate, ma che sono più sole che mai una volta che il processo è iniziato

Il Giudice leggerà gli atti? Il Giudice sarà imparziale o sessista? Capisce qualcosa in diritto di famiglia? Che prassi ha in mente di applicare? E gli assistenti sociali che faranno? Il collega avversario vorrà la guerra o cercherà una soluzione per farci uscire tutti  dall’inferno? E quei poveri figli, contesi come  delle bestie,  potranno amare liberamente entrambi i genitori e chi cavolo vorranno?

E il mio cliente capirà quando gli dirò che mi sono rotto le scatole del suo odio insanabile ed incontentabile verso il proprio coniuge?

Che significa essere buoni avvocati oggi? Comincio a chiedermelo tutti i santi giorni, ma non trovo la risposta che vorrei. Anche di questo ho paura. Eppure l’orgoglio per la mia toga è ancora vivo come prima.

                           

                                                                                                                                              Gian Ettore Gassani